mind the wallabies Alex
Com’ è bizzarro il nostro Belpaese. Da anni ormai la produzione e in
generale gli affari interni in Italia vanno a picco, rasentando la disperazione
più totale. Le industrie chiudono, le aziende falliscono, i sindacati lottano e
i politici gongolano. Eppure se consideriamo le esportazioni, il Made in Italy
regge anche al tempo della crisi. Anzi, spopola.
Pasta, pizza, vino, parmigiano, arance di Sicilia, Ferrari, Tod’s: la lista di
brand e “pezzi da 90” che vantano innumerevoli tentativi di imitazione è lunga
come un Rotolone Regina. E’ soprattutto l’Oriente, e in particolare il popolo
degli occhi a mandorla che, come uno scolaro imbranato allunga l’occhio per
copiare il compito del compagno secchione, cerca di imitarci. Da un po’ di
tempo a questa parte, anche nel calcio lo stile italiano è molto apprezzato.
Anzi, riscoperto possiamo dire.
Già, perché se la mia memoria e Wikipedia non mi ingannano il primo calciatore
italiano a calcare i campi di calcio oltre la dogana fu Giorgio Chinaglia che
nel 1976 fece la valigia col dizionario di inglese dentro e salutò tutti per
andare a giocare a New York, sponda Cosmos. Da Chinaglia a Del Piero, ne sono
passati di tifosi sugli spalti, eppure e specialmente negli ultimi anni i
calciatori nostrani, giunti alle porte del pensionamento da vecchiaia, emigrano
con o senza famiglia al seguito in cerca di nuovi trofei da vincere e,
ovviamente, soldi da mettere sul già ricco conto in banca.
Un tempo era l’America la meta preferita di attaccanti e difensori over 35, poi
nelle primissime stagioni del Terzo Millennio gli sceicchi medio-orientali e i
loro petroldollari hanno cercato di attirare funambolici giocolieri del pallone
per far gioire i loro sudditi. E’ il caso, per esempio, di Fabio Cannavaro che
nel 2010 lascia la Penisola per firmare un contratto da capogiro con l’Al-Ahli,
Emirati Arabi Uniti, campionato che non ha certo la risonanza della Serie A ma
che certamente offre linee di credito pressochè illimitate.
Poi è arrivata la Cina, l’immensa Cina, che ha vinto tutto ciò che c’era da
vincere negli altri sport, ma che col pallone tra i piedi non ci ha mai capito
molto. E continua a non capirci granchè: il colpo è stato portare prima la
Supercoppa Italiana a Pechino, poi un allenatore campione del mondo come
Marcello Lippi a sedere sulla panchina del Guangzhou Evergrande, ma se proprio
dovevano rubarci i giocatori potevano trovare qualcosa di meglio rispetto a
Firmani e Liverani. In ogni caso i luccicanti arrivi di Drogba e Anelka
mostrano segnali di risveglio e interesse del popolo cinese verso il calcio,
europeo in particolare, e la colonia di italiani in Cina non farà altro che
espandersi.
Le novità sono sicuramente Canada e Australia, tralasciando la Svizzera che per
ovvi motivi di vicinanza qualche calciatore biancorossoverde se lo porta via.
Nesta, Corradi e più recentemente Di Vaio si sono costruiti una seconda vita
calcistica nella Nazione della foglia d’acero, da sempre impegnata a cercare di
sorpassare gli odiati cugini americani che a forza di dollari hanno impreziosito
e non poco la loro Major League Soccer altrimenti quasi amatoriale. I “canguri”
invece con l’accoglienza da re che stanno riservando ad Alessandro Del Piero,
fresco di firma col Sydney FC, sperano di attirare ben presto altri calciatori
del nostro Paese che vogliono incantare le platee poste a una decina di ore di
fuso orario in cambio di lauti stipendi e regalini vari alle mogli che
rimpiangono il Belpaese.
Un campanello d’allarme per la nostra Serie A? Tutt’altro, direi piuttosto che
gli investimenti dei Paesi in via di sviluppo calcistico sono per noi
un’opportunità. Se non altro chi se ne va ha già dato tutto o quasi, e in
assenza di ricchi portafogli, i d.s. italiani saranno costretti una buona volta
a dare un’occhiata in più ai nostri vivai. E poi se i nostri ex-campioni sono
richiestissimi, un motivo ci sarà no? Scusami Madonna se ti rubo di nuovo la
citazione ma è proprio vero: Italians do it better.
Simone Sagulo
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